“I costruttori di queste grandi fondamenta e fortificazioni ci sono ignoti, né sappiamo quanto tempo è trascorso dall’epoca loro, dal momento che oggi scorgiamo solo mura di raffinata fattura, erette secoli e secoli fa. Talune di queste pietre sono consumate e in rovina, e ve ne sono altre talmente imponenti che viene da chiedersi come poté la mano dell’uomo trasportarle fino a dove oggi si trovano. Oserei dire che si tratta delle antichità più vetuste di tutto il Perù … Ho chiesto ai nativi se risalissero al tempo degli Incas, ma gli indigeni, ridendo della domanda, mi hanno ripetuto ciò che ho già detto: vennero costruite prima del regno degli Incas; ma non sapevano indicare o ipotizzare chi o perché le avesse erette”
Pedro Cieza de Leon, 1549 [1]
La città oltre la porta del sole
All’epoca del viaggio di Pedro Cieza de Leon, probabilmente il primo europeo a posare gli occhi sulle grandiose rovine di Tiwanaku e lasciarcene una qualche seppure sommaria descrizione, solo poche rovine restavano a indicare il luogo dove secoli prima era sorta una delle più grandi capitali dell’America pre-ispanica.
Solo recentemente la moderna archeologia ha potuto riconoscere il ruolo di quella che fu certamente una delle più importanti e durature civiltà dell’intero Sud America, la prima a stabilire il proprio dominio su una regione estesa dall’Ecuador a Nord, fino agli altopiani della Bolivia e del Cile.
Tiwanaku fu il primo vero impero andino, un impero paragonabile per forza ed estensione a quello degli Inca, che sarebbe tuttavia sorto solo secoli più tardi, almeno sei, stando alle cronologie attualmente accertate. Tiwanaku domina insieme a Wari l’orizzonte antico dell’archeologia andina: due culture talmente simili e vicine da avere fatto coniare l’espressione di impero Tiwanaku-Wari per indicarne gli immensi possedimenti territoriali e l’ancor più vasta area di influenza.
Nonostante l’enorme importanza rivestita da Tiwanaku come culla della civiltà andina – un ruolo che Tiwanaku si spartisce con l’altra grande cultura madre delle Ande: Chavin de Huantar – , oltre un secolo di indagini archeologiche hanno potuto appena sollevare il velo su di una civiltà che resta ancora in larga parte avvolta nel mistero.
Neppure il vero nome di Tiwanaku ci è noto, Tiwanaku (o Tiahuanaco) essendo un nome Quechua, attribuitogli dagli ultimi arrivati, gli Incas, agli inizi del XV secolo.
Secondo una delle interpretazioni più diffuse, Tiwanaku significherebbe letteralmente “la città di Dio”. Il vero nome di Tiwanaku era però forse Taypikala “la pietra nel mezzo“, o più probabilmente Phoukara, “Luce splendente del Sole“. [2]
Quando gli Incas guidati dal leggendario imperatore Pachacutec giunsero a Tiwanaku per la prima volta, “si sentirono invadere dallo stupore“, come riferisce un manoscritto della conquista: “costruzioni simili non ne avevano mai viste“. [3]
Non sorprende dunque che già a partire dall’epoca Inca le leggende più incredibili e le storie più strane prendessero a circolare sull’identità dei misteriosi costruttori di Tiwanaku. Secondo una nota leggenda Inca, a Tiwanaku, dove il mondo era stato creato, il creatore del mondo Tikki Viracocha inviò i suoi due figli, Manco Capac e Mama Occlo affinché fondassero una nuova dinastia, quella degli Incas. Più ancora che in ogni altro luogo, a Tiwanaku gli imperatori si recavano in pellegrinaggio. E non stupisce certo che il più venerato santuario della Bolivia e forse dell’intero Sud America sorga oggi a Copacabana, a meno di 20 Km dall’antica Tiwanaku.
Tutti sulle Ande sapevano di Tiwanaku, e fino dalla Colombia e dalla lontana Panama i pellegrini giungevano ad ammirare i grandi templi e gli immensi edifici di pietra, affrontando viaggi che potevano durare anche anni.
Eppure, all’epoca degli Inca solo rovine restavano del grande centro cerimoniale. La fine di Tiwanaku resta infatti uno dei molti enigmi irrisolti dell’archeologia precolombiana.
L’intera città sembra essere stata sconvolta da un cataclisma di indescrivibile potenza, che squarciò i palazzi e ridusse i grandi templi, le strade e le piazze ad un unico immenso cimitero, seppellendo tutto sotto una coltre di fango spessa in alcuni punti anche 21 metri, e facendo si che il lago Titicaca, che bagnava anticamente il grande centro cerimoniale, si ritirasse verso l’entroterra di oltre 28 Km. Sebbene in forme ben più modeste, Tiwanaku risorse tuttavia dalle sue ceneri, ridotta ormai a un villaggio nell’area un tempo occupata dall’antico porto, per poi crollare definitivamente e per ragioni tuttora non acclarate intorno all’XI o XII secolo d.C.
Le distruzioni maggiori Tiwanaku dovette tuttavia subirle dopo la conquista, divenuta ormai una sterminata cava di pietre. Intorno alla metà dell’800 le spoliazioni procedevano ad un ritmo tale che una linea ferroviaria dovette essere appositamente costruita per collegare Tiwanaku a La Paz.
Ancora oggi risulta perciò difficile riconoscere molti dei luoghi tanto accuratamente ritratti e disegnati dai viaggiatori europei del tempo.
Agli inizi del ‘900 l’ingegnere austriaco Arthur Posnansky fu il primo a intraprendere scavi scientifici a Tiwanaku, tratteggiando dunque per la prima volta un quadro più chiaro dell’antica civiltà dei suoi costruttori.
Sebbene le conclusioni di Posnansky sull’antichità di Tiwanaku, che faceva risalire ad oltre 17,000 anni prima di Cristo, fossero certo esagerate, è a questi primi scavi che dobbiamo la larga parte delle informazioni attualmente note sull’antica fisionomia del sito.
Una serie di grandi edifici, cui vennero attribuiti nomi di fantasia, poterono essere identificati, edifici ai quali altri si aggiunsero nel corso dei successivi scavi degli anni ’50 e ’60.
Il tempio
(foto) Ricostruzione ipotetica del Kalasasaya. E. Kiss, “Das Sonnentor von Tiahuanaco”, 1937
Posnansky concentrò principalmente i suoi scavi in un’area che era nota come quella di uno dei più grandi templi di Tiwanaku. Gli scavi portarono alla luce le fondamenta di una grandiosa costruzione rettangolare di 126 per 117 metri, dotata di un monumentale portale d’accesso costituito da un trilite di blocchi di arenaria rossa del peso di diverse decine di tonnellate.
L’intero perimetro della costruzione era scandito da una successione di pilastri monolitici in andesite posti a distanze regolari, alcuni dei quali alti oltre 7 metri e pesanti fino a 40 tonnellate. Sebbene i pilastri risultino oggi pesantemente erosi, alcuni di essi presentano tuttavia chiare indentature destinate all’inserimento di architravi.
Nel corso degli anni ’50, l’originaria fisionomia del grande tempio di Kalasasaya “il tempio dei pilastri“, nome con il quale lo si conosce attualmente, venne completamente sconvolta da una serie di restauri e interventi ricostruttivi: gli spazi tra i pilastri vennero riempiti con muri costruiti di blocchi di calcestruzzo, e l’intera spianata del tempio colmata di terra affinchè la costruzione assumesse l’aspetto di una tozza piramide tronca a due gradoni. Ben poco resta dunque oggi dell’elegante successione di pilastri monolitici che tanta ammirazione aveva suscitato in tutti i viaggiatori da Squier allo stesso Posnansky.
Il riempimento della spianata centrale del tempio ha inoltre avuto la conseguenza di ricoprire definitivamente i resti della straordinaria pavimentazione in lastre di andesite scoperta dallo stesso Posnansky, nonché di occludere la larga parte degli ingressi originari.
Il tempio di Kalasasaya custodisce comunque alcune delle più straordinarie opere d’arte litica dell’antica Tiwanaku. In uno degli angoli della costruzione, lì ricollocato già in antico, si trova quello che è forse il più celebre monumento in pietra dell’intero continente americano. La porta del sole di Tiwanaku è l’unica rimasta di una serie di portali monolitici che dovevano anticamente adornare qualche edificio ormai scomparso dell’antico centro cerimoniale. Sebbene sorga attualmente isolata in un angolo del tempio di Kalasasaya, è tuttavia certo che essa facesse originariamente parte di una facciata scandita da una successione di portali monolitici e da un unico fregio continuo. Il fronte della porta mostra, al centro, una enigmatica figura recante uno scettro in ciascuna mano, circondata da una complessa teoria di figure alate più piccole, alcune con volti umani, altre con teste d’aquila e a loro volta recanti scettri nelle mani, le quali sembrano tutte correre e convergere verso la grande figura centrale.
L’interpretazione di questo straordinario rilievo è quanto mai oscura. Una delle teorie più accreditate è quella che si tratti di un elaborato calendario relativo alle fasi di Venere, in cui ciascuna delle figure alate rappresenterebbe un “portatore di giorni” [4].
Altre interpretazioni si sono invece concentrate sulla figura centrale, il cui viso appare circondato da raggi e solcato da lacrime d’oro. Si tratta di una figura ben nota in tutto il mondo andino, talora chiamata con il nome di “Dio degli scettri” o “Dio piangente“.
Esso è ritratto inginocchiato sopra una piramide a tre livelli, al cui interno è raffigurata una stanza più piccola dalla quale si dipartono sette passaggi simili a fiumi o canali per l’acqua.
Proprio i canali per l’acqua sono una delle caratteristiche più singolari e sorprendenti dell’antica Tiwanaku: l’intero sottosuolo appare come solcato da un labirinto inestricabile di tubazioni, canalette e condutture, le quali si trovano in quantità tanto numerosa da indurre a supporre una qualche ignota funzione rituale prima ancora che pratica.
Anche per questo si ritiene che il fregio della porta del sole raffiguri forse un evento reale legato alla storia della città , sullo sfondo di una piramide a tre livelli che è quasi certamente da identificarsi con il Puma Punku, e in cui la data sarebbe riportata per mezzo di un sofisticato sistema di glifi calendariali, tuttora indecifrati, e forse legati ai cicli di Venere.
A breve distanza dalla porta del sole si erge un’altra enigmatica scultura, ribattezzata come “El fraile“. Si tratta di una figura umana, recante due oggetti in ambo le mani e che sembra fissare l’osservatore. Diversamente da altre sculture, è del tutto priva di glifi o altre raffigurazioni, e risale probabilmente all’epoca tarda di Tiwanaku.
Ben più interessante da questo punto di vista risulta invece il monolito Ponce, posto di fronte all’ingresso principale del Kalasasaya quasi a intimorire chi avesse osato attraversare il grande portale. Si tratta anche in questo caso di una figura umana, recante due oggetti in ciascuna mano e con il capo coperto da un’elaborata corona, talora interpretata coma un turbante. L’intera superficie del monolito è ricoperta di glifi simili a quelli della più celebre porta del sole, e la stessa scena con il Dio piangente al centro è raffigurata sul retro del monolito. La scultura, nonostante i caratteri ieratici e le linee geometriche e stilizzate proprie della statuaria di epica Tiwanaku, sorprende tuttavia per l’eccezionale livello di dettaglio e realismo, specie nella rappresentazione delle trecce di capelli e dei simboli che ne coprono i panneggi.
L’uso di collocare simili sculture in posti chiave del centro cerimoniale, come di fronte ai portali o nel centro delle piazze sembra avere avuto una chiara valenza apotropaica, e il significato di queste statue dai tratti enigmatici è probabilmente quello di altrettanti guardiani o vigilanti.
Di fronte al Kalasasaya un’ampia piazza sprofondata custodisce quelli che sono probabilmente alcuni tra i più importanti esempi noti di scultura Tiwanaku.
Questa piazza sprofondata, chiamata anche con il nome di “Templete semi-subterraneo“, presenta su ognuna delle quattro pareti una impressionante successione di teste umane e animali, 48 su ciascun lato. Sebbene la maggior parte sia ormai sfigurata dall’erosione e dal vandalismo, sono tuttavia chiaramente riconoscibili i profili di dignitari stranieri, lama, puma, giaguari, e alcune interessanti teste di pesce.
Il significato di queste “Cabezas clavas“, come vengono comunemente chiamate, è quanto mai oscuro, costituendo forse una galleria di popoli conquistati o simboli ancora una volta apotropaici. E’ invece improbabile che il loro significato sia invece da ricercarsi in antichi riti sacrificali, mai con certezza attestati a Tiwanaku.
La valenza sacrale di questo edificio semi-sotterraneo è altresì testimoniata dalla presenza di numerose stele al centro della piazza. Tra queste, la più celebre è il cosiddetto “monolito barbado”, anche chiamato con il nome di Kon Tiki, e raffigurante un uomo barbuto ritratto in posizione frontale e circondato da un numero di simboli tra cui serpenti e giaguari. La presenza della barba ha dato adito nel tempo a numerose speculazioni sull’identità della figura ritratta, poiché è noto che le popolazioni indigene dell’America meridionale non possiedono barba, un fatto che sembra altresì ricollegabile alla questione tuttora irrisolta dell’origine etnica dei costruttori di Tiwanaku.
A non molta distanza un’altra scultura presenta simili caratteri, ma è purtroppo priva della testa.
Il museo litico di Tiwanaku custodisce poi quella che è forse la più grande scultura litica fino ad ora scoperta sul sito. Scoperto nel 1960 nell’area del Templete semi-subterraneo, il monolito Bennett raggiunge un peso di oltre 30 tonnellate, con un’altezza superiore ai 7 metri. Stilisticamente, si tratta di una scultura pressoché identica a quelle del Kalasasaya, e recante gli stessi caratteri e simboli del monolito Ponce. Ad una identica scultura, ancora più colossale, appartiene forse la grande testa, alta oltre 1,5 metri, rinvenuta non distante dalla base della piramide Akapana e priva di corpo.
La piramide
Quella che è oggi nota con il nome di Akapana, un edificio piramidale a sette livelli rivestito di ciclopici blocchi di arenaria e andesite lavorata, fu per secoli semplicemente conosciuta come “La carrera” – la cava – , nome che ben lascia intuire quanto di questo straordinario edificio sia andato perduto nel corso dei secoli. Con una base di circa 180 metri di lato e un’altezza di 35, oggi ridotti a meno della metà , l’Akapana è una delle più grandi piattaforme artificiali al mondo. Diversamente dalle grandi piramidi mesoamericane, la piramide Akapana presenta una base di forma scalonata, la quale richiama nella pianta una croce andina. Sette gradoni o piattaforme sovrapposte si innalzavano originariamente fino ad un’altezza di circa 35 metri, attraversate da imponenti scalinate fiancheggiate a loro volta da piedistalli e statue di basalto nero.
Alcune di queste statue, recentemente portate alla luce, raffigurano con tratti straordinariamente plastici e precisi le fisionomie di puma seduti o figure umane in pose ieratiche, simili ad atlanti. L’ascesa alla sommità della piramide era probabilmente scandita da una successione di portali monolitici in andesite, dei quali solo uno resta attualmente in situ, caduto e spezzato in più parti.
Quasi nulla si conosce invece dell’enorme tempio che certamente sorgeva sulla sommità della piramide. Dai pochi resti rimasti è chiaro che si trattasse di una costruzione colossale, dotata di una serie di ampi portali di accesso e con un tetto anch’esso in pietra e sorretto da pilastri. Attualmente dell’antico tempio solo due file parallele di pilastri, tuttora semisepolti, restano a indicare la posizione di quello che era probabilmente uno dei due ingressi principali, precisamente orientati verso il sorgere ed il calare del sole.
La sommità della piramide venne invece completamente squarciata da cacciatori di tesori, che vi aprirono una enorme voragine. I pochi elementi decorativi superstiti testimoniano dell’antico splendore di questo tempio, interamente costruito di enormi blocchi di andesite perfettamente giuntati.
Ciò che ha destato tuttavia il maggiore interesse è quanto si potrebbe trovare sotto al tempio stesso. L’intera piramide risulta infatti attraversata da un dedalo di passaggi, tubazioni e condutture, a loro volta intersecate da pozzi verticali e collettori più piccoli. Si tratta di un’opera ingegneristica con pochi eguali nel mondo antico, al punto da suggerire ardite analogie con gli identici condotti all’interno della grande piramide di Ghiza e dar così vita ad una incredibile successione di ipotesi e speculazioni riguardo all’esistenza di camere segrete all’interno o al di sotto della piramide. Recenti esplorazioni condotte per mezzo di rover teleguidati hanno evidenziato la perfetta tecnica costruttiva delle condutture, alcune delle quali larghe meno di 60 cm e dotate di un tracciato insolitamente tortuoso che sembra contrastare con la loro presumibile funzione di condutture di scarico per le acque piovane. Tra gli anni ’30 e ’40 un ampia sezione di un condotto discendente venne parzialmente portata alla luce. Di questa vera e propria “cloaca maxima”, come venne ribattezzata, restano oggi ben poche tracce, se si eccettuano gli sbocchi dei numerosi collettori laterali, il cui scavo risulta tuttavia quanto mai difficoltoso per via delle dimensioni estremamente esigue dei passaggi.
Uno degli enigmi più affascinanti offerti dalla piramide è rappresentato dalla presenza di un forte campo magnetico, che le guide locali non mancano di fare rilevare posando una bussola al suolo sulla sommità della piramide [5]. Si tratta di uno dei più chiari indicatori dell’esistenza di grandi masse metalliche nel sottosuolo. Potrebbe trattarsi di un fenomeno naturale, la ragione forse del peculiare orientamento della grande piramide 15 gradi ad Est del Nord, come anche della conseguenza della presenza di grandi quantità di oggetti metallici nel sottosuolo.
Una investigazione sistematica dei fianchi e del sottosuolo della piramide Akapana è tuttora in corso, ed è probabile che numerose sorprese possano giungere in futuro dai suoi scavi. Ha recentemente suscitato un notevole interesse la scoperta di una ricca sepoltura nei pressi della piramide, contenente un gran numero di oggetti in bronzo e oro, testimonianza della ricchezza e della raffinatezza delle classi sacerdotali dell’antica Tiwanaku.
A non molta distanza dall’Akapana, una trincea di scavo e diversi grandi blocchi di pietra sparsi segnalano la posizione di un piccolo edificio sacro dotato di una sfarzosa decorazione a rilievo, cui è stato attribuito il nome di Kantat’Allyta.
La maggior parte dei blocchi risultano decorati con simboli cruciformi che richiamano il diffuso motivo scalonato della croce andina, evidente nella pianta di molti edifici del centro cerimoniale.
Uno dei pezzi più degni di nota è costituito dall’elemento monolitico di un portale ad arco ribassato, finemente decorato con raffigurazioni di “angeli” o figure alate. Diversamente dalle pose ieratiche della porta del sole, qui le figure sembrano dotate di un particolare dinamismo, quasi fossero state ritratte nell’atto di librarsi nell’aria.
Solo alcune lastre pavimentali restano invece a indicare la posizione del tempio vero e proprio. Sembra inoltre che l’interno del tempio contenesse un sacello più piccolo contenente a sua volta un raffinato modello architettonico. Si tratta quasi certamente di un sacello eretto al fine di commemorare l’erezione di un qualche grandioso edificio, la cui pianta è vagamente ricostruibile sulla base del modello architettonico come composta di un’ampia sala colonnata affacciata su di un cortile infossato e dotata di numerose scalinate di accesso. L’importanza dell’edificio è facilmente desumibile dalle enormi dimensioni del modello, misurante circa 4 metri per 5, con un peso aggirantesi nell’ordine delle 70 tonnellate.
Degna di nota è altresì la straordinaria qualità tecnica raggiunta dagli antichi costruttori nell’assemblaggio dei blocchi litici, ben attestata da una serie di incastri a coda di rondine che garantivano una perfetta tenuta dei giunti pavimentali.
La presenza di una diffusa patina di ossido di ferro su molti dei blocchi, che pure possiedono un tenore molto basso in minerali ferrosi, ha in passato dato adito a numerose ipotesi, tra cui quella della presenza di ferro tra le rovine di Tiwanaku, ipotesi tuttavia non confermata da altri rinvenimenti.
Il palazzo dei sarcofagi
Situato sul retro del grande recinto sacro di Kalasasaya. Il cosiddetto Potuni, o palazzo dei sarcofagi , costituisce uno degli edifici più importanti dell’antico centro cerimoniale.
Si tratta di un edificio a pianta rettangolare, dotato di un elaborato portale doppio, del quale restano tuttavia solo alcune fondamenta, e circondato da alte mura di pietra.
Il nome attuale di “palazzo dei sarcofagi” deriva dalla presenza lungo le pareti di numerose celle seminterrate, aventi una probabile destinazione sepolcrale come depositi per mummie e offerte rituali. La costruzione delle celle risulta particolarmente accurata, con lati diritti e mura di pietra finemente giuntate. Le celle erano quindi ricoperte da ampie lastre di andesite piane, e dotate in alcuni casi di una porta costituita da una lastra di pietra scorrevole.
Molto simile sembra essere stato anche il vicino ma molto più rovinato Keri’Kala, la cui destinazione era tuttavia più probabilmente di tipo palaziale. Del grande edificio restano attualmente solo alcuni pilastri monolitici, detti appunto Keri’Kala o “pietre di fuoco”.
Una successione di bassi monticcioli non scavati segnala invece la presenza di diverse piramidi o piattaforme cerimoniali in quest’area. E’ qui che si trova la celebre porta della luna – anche nota come porta del Pantheon, dal nome attribuito all’edificio in cui venne trovata -.
Si tratta di un portale monolitico simile alla porta del sole ma più stretto. Il fregio originario, anch’esso simile a quello della porta del sole, risulta tuttavia frammentario o mancante. La porta della luna pare essere dello stesso tipo di un’altra meno nota porta monolitica, detta porta delle stelle, la cui collocazione originaria risulta tuttavia ignota, in quanto reimpiegata come soglia di abitazione nel moderno pueblo di Tiwanaku (attualmente, la porta, molto rovinata e priva del fregio, si trova all’ingresso del nuovo museo litico del sito).
Recenti scavi hanno portato alla luce nell’area resti di una notevole pavimentazione costituita da enormi lastre di andesite piane disposte orizzontalmente, che pare una continuazione della pavimentazione del vicino Kalasasaya, oggi non più visibile in quanto sepolta sotto i restauri moderni.
Nel corso degli stessi scavi hanno altresì potuto essere riportati alla luce alcuni tratti di condutture litiche in andesite aventi una insolita sezionale ottagonale, il cui tracciato sembra correre intorno all’intero perimetro del Potuni per poi proseguire per mezzo di un collettore forzato nel sottosuolo.
La porta del Leone
A circa 1,5 Km dal centro cerimoniale sorgono i resti consumati dal tempo di un edificio ancor più grandioso. Un breve cartello esplicativo all’ingresso del sito chiarisce che si tratta del più importante tempio Tiwanakota; e certamente dai pochi resti sparsi è facile intuire quanto splendido questo edificio fosse anticamente stato, con i suoi perfetti muri di andesite, gli enormi blocchi monolitici e le pareti coperte d’oro e argento.
I primi scavi di Puma Punku si svolgevano in un periodo che assisteva alla riscoperta dei resti della metropoli messicana di Teotihuacan, fatto non privo di conseguenze sulla lettura e interpretazione dei monumenti boliviani di Tiwanaku. L’improvvisa fascinazione messicana fece vedere in Tiwanaku un grande centro cerimoniale sul modello di quelli messicani, dove pure dominava la mole di due piramidi: quella del sole e della luna.
Il Puma Punku non fu tuttavia mai una piramide. Fu invece una grandiosa piattaforma cerimoniale, sovrastata da imponenti edifici in pietra e sfarzosi palazzi.
L’attuale nome di Puma Punku, “la porta del leone“, deriva dalla scoperta, avvenuta in epoca coloniale, della statua di un puma o leone di montagna tra i resti della grande piattaforma. E’ più probabile che il nome di Puma Punku sia in realtà una distorsione del più antico toponimo di Uma Punku, “la porta dell’acqua“. Il grande palazzo che vi sorgeva era invece probabilmente noto con il nome di Tunka Punku, o “palazzo delle dieci porte“.
La posizione del Puma Punku in prossimità dell’antico porto, suggerisce che questa fosse la principale porta d’accesso al centro cerimoniale per i pellegrini provenienti dalla regione del Titicaca. La prima vista del centro cerimoniale sarebbe stata splendida: un enorme edificio di pietra ricoperto di sottili lamine d’oro e scintillante al sole, scandito da una successione di portali monolitici i cui riflessi si proiettavano in ampie vasche riempite d’acqua.
E’ stato notato che sebbene Tiwanaku sia letteralmente dominata dalla mole imponente del Nevado Illimani, la montagna è completamente nascosta da una vicina catena di colline, così che solo salendo i gradini del Puma Punku e della grande piramide Akapana ci si sarebbe trovati di fronte l’imponente mole della montagna sacra, circondata dai monti innevati della Cordillera Real. Un effetto scenografico di rara bellezza, e certo deliberatamente ricercato dagli antichi costruttori del sito.
Il tempio principale del Puma Punku, affacciato su di una vasca cerimoniale o piazza sprofondata, è una delle costruzioni in pietra più grandi del nuovo mondo, in cui a blocchi di pietra di 440 tonnellate ne seguono altri più piccoli, di 200, 100, e via via fino a quelli di 80 e 40 tonnellate.
Il Puma Punku colpisce per la dimensione dei blocchi, ma colpisce anche per la raffinatezza della decorazione scultorea. Ovunque giacciono sparsi al suolo parti di quelli che furono portali, finestre, nicchie o semplici blocchi di pietra. In nessun luogo del nuovo mondo, e probabilmente neppure del vecchio, si trova traccia di una lavorazione della pietra tanto precisa e raffinata: i costruttori di Tiwanaku scolpirono autentiche meraviglie nella durissima andesite: blocchi di pietra tagliati con tolleranze millimetriche, enormi portali monolitici pesanti tonnellate, e ancora pietre per le quali è impossibile anche solo supporre una qualsiasi funzione. Come in un gigantesco gioco a incastri, ogni blocco era progettato per incastrarsi perfettamente con quelli adiacenti tramite un complesso sistema di indentature, incavi e morsetti metallici. Dai pochi frammenti rimasti, sembra che anche il tetto di questi straordinari edifici fosse costituito di enormi lastre di pietra.
Recenti scavi hanno portato alla luce nella zona del Puma Punku i resti di almeno tre grandi portali monolitici, in tutto simili alla porta del sole, ma mancanti del fregio. Solo uno dei portali rinvenuti presenta tracce di un fregio a losanghe intervallate da simboli solari, troppo rovinato tuttavia per consentire ricostruzioni di alcun tipo.
Alcune trincee di scavo aperte nell’area centrale del Puma Punku hanno portato alla luce le estremità di grandi pilastri di andesite, forse parte dell’originaria facciata del Puma Punku.
A non molta distanza dal Puma Punku sorgono invece i resti colossali e sconvolti dal cataclisma del grande porto di Tiwanaku, anch’esso costituito di filari su filari di enormi lastre monolitiche. Dalla zona del porto proviene anche un curioso bassorilievo ribattezzato “El secretario” o “Escretorio del Inca”. Si tratta di un elegante modello architettonico, purtroppo frammentario e molto rovinato, raffigurante un edificio a due o tre livelli costituito da una successione di portali monolitici sovrastati da finestre e nicchie cieche. Si tratta di un tipo di facciata ricorrente nell’architettura Tiwanaku, per cui risulta difficile ricondurre tale modello ad uno qualsiasi degli edifici attualmente noti.
Recenti ipotesi hanno posto in evidenza le notevoli analogie con la probabile facciata del Puma Punku ed i residui elementi che si conservano in situ. Si tratta tuttavia di un’ipotesi dotata di una base di prove alquanto esigua. I portali risultano infatti troppo ravvicinati per consentire un’identificazione con quelli del Puma Punku, ben più larghi e distanziati. Le somiglianze aumentano se si considerano invece le porte monolitiche dette della luna e delle stelle, il cui sito d’origine è tuttavia sconosciuto.
Questo modello, insieme a quello del Kantat’ Allyta, costituisce una testimonianza preziosa dell’architettura Tiwanaku, offrendo un quadro più preciso del probabile aspetto di questi edifici.
Recenti scavi hanno altresì condotto alla scoperta di un esteso insediamento di epoca Inca nella zona del Puma Punku, il quale, trovandosi nell’area un tempo occupata dall’antico porto, testimonia altresì del completo interramento di quest’ultimo [6]. Mentre il Puma Punku sembra avere sofferto pesanti danni dall’occupazione Inca, la restante parte del centro cerimoniale sembra essere stata invece completamente ignorata, né risulta attestato alcun tipo di frequentazione in epoca tarda nella zona dell’Akapana, che venne apparentemente abbandonata e sfruttata già dalla tarda epoca Inca come cava di pietra, tradizione che proseguirà poi per tutto il periodo coloniale.
Anche a Puma Punku si trovano raffinati esempi della perizia e dell’alto livello raggiunto dalla scienza idraulica di Tiwanaku. Un tratto di canale recentemente portato alla luce risulta costituito di una successione di grandi blocchi di pietra da taglio giuntati per mezzo di morsetti metallici. Stranamente, l’eccezionale stato di conservazione dei paramenti murari e l’assenza di ogni traccia di erosione da acqua suggerisce che questo canale non sia mai servito come scarico per le acque, ed è dunque probabile che la reale funzione di queste straordinarie condutture sia da ricercarsi nei significati simbolici attribuiti all’acqua prima ancora che in una qualsiasi funzione di tipo pratico.
Stabilire una data
A quando risale Tiwanaku? Fino ad ora gli archeologi hanno potuto identificare tre principali fasi nella cultura Tiwanaku, denominate aldeana (o formativa), classica e finale (o espansiva), succedutesi a partire dal 1500 a.C. fino al 750 d.C. circa. [7]
Si tratta tuttavia di datazioni che, per ammissione delle stesse autorità archeologiche boliviane, riguardano principalmente i manufatti ceramici, mentre risulta difficile stabilire una data anche solo approssimativa per le strutture in pietra.
Un ulteriore aspetto degno di nota è l’incomprensibile sviluppo urbano di Tiwanaku. Si tratta di un aspetto non privo di implicazioni sul problema della datazione, e che pare suggerire un’origine ben più antica del sito come centro cerimoniale.
In netto contrasto con la geometrica precisione dei suoi edifici e con gli accurati orientamenti astronomici, l’abitato di Tiwanaku sorse senza il minimo progetto urbanistico e in modo apparentemente casuale. Diversamente dai centri Wari, veri capolavori di pianificazione urbana, dotati di strade diritte e isolati a scacchiera; l’abitato di Tiwanaku sembra essere sorto in modo del tutto disordinato attorno al centro cerimoniale. La ricerca di un qualche asse viario principale, sul modello dei siti Wari e centroamericani, si è rivelata fino ad ora del tutto infruttuosa.
Le stesse abitazioni paiono di qualità modestissima, certo non quanto ci si aspetterebbe per la raffinata casta politica e sacerdotale di un potente impero. Si tratta nel più dei casi di edifici di una o due stanze, con pareti di mattoni di fango inframezzati ad adobe e rozze coperture di paglia o giunchi. Una possibile spiegazione di questa apparente contraddizione risiede forse nella natura stessa di Tiwanaku in quanto centro cerimoniale. Più che di una vera e propria città , si sarebbe dunque trattato di un santuario, circondato da alloggi per i pellegrini, inadatti tuttavia ad una occupazione stabile e prolungata. Il numero e la quantità degli alloggi fanno presupporre che Tiwanaku potesse accogliere in occasione di particolari festività folle nell’ordine delle 40.000 o anche 60,000 persone.
Un aspetto che lascia sconcertati nelle rovine e nel paesaggio quasi lunare di desolazione che circonda Tiwanaku è l’apparente assenza di risorse agricole in quantità sufficiente al sostentamento di una vasta popolazione urbana. Difficilmente dunque lo sterile altipiano, con le sue proibitive condizioni ambientali, avrebbe potuto offrire sostentamento in modo stabile e continuativo ad una popolazione in costante aumento. A queste stesse conclusioni era giunto già Squier nel 1877:
“Non è questa una regione che possa offrire nutrimento o sostentamento per una gran massa di persone, e certamente non è un’area dove ci si potrebbe aspettare di trovare una capitale. Tiahuanaco forse fu un luogo sacro o un santuario, la cui posizione venne fissata casualmente, in base a un auspicio o ad un sogno. Mi è difficile credere che fosse la sede di un qualche potere centrale.” [8]
Sebbene l’agricoltura Tiwanaku, quale risulta attestata dai molti centri minori gravitanti nell’orbita del grande centro cerimoniale fosse straordinariamente avanzata per l’epoca, basata su di un’articolata rete di canali e isolotti in grado di prevenire la formazione di permafrost, difficilmente ciò avrebbe tuttavia potuto offrire condizioni adatte allo sviluppo di una grande capitale imperiale.
Ed è altresì difficile individuare una qualsiasi ragione logica per cui popolazioni provenienti dalle fertili vallate andine abbiano consapevolmente deciso di insediarsi in una regione tanto sterile e inospitale, priva di ogni tipo di risorsa naturale al punto che la stessa pietra da costruzione doveva essere importata da cave situate a molte decine di kilometri di distanza.
Questi elementi suggeriscono che le ragioni della sacralità di Tiwanaku risalissero indietro nel tempo fino ad epoche estremamente remote, e che la sacralità di Tiwanaku fosse più legata alla sua venerabile antichità o a qualche ignoto evento del suo passato che ad una qualunque altra ragione.
Recentemente hanno destato scalpore le dichiarazioni di Oswaldo Rivera, già direttore dell’INAR, l’istituto nazionale di archeologia boliviano, secondo il quale i resti di almeno cinque diverse metropoli si troverebbero sepolti al di sotto dell’odierna Tiwanaku, ad una profondità superiore ai 21 metri. Se queste scoperte fossero confermate, aggiungerebbero ulteriori elementi in favore delle discusse tesi formulate da A. Posnansky nel corso degli scavi dei primi anni ’30 e ’40, e secondo il quale Tiwanaku insisterebbe sui resti di una metropoli molto più antica di almeno 17,000 anni.
Posnansky basò queste sue conclusioni su oltre 40 anni di scavi condotti sul sito, accompagnati da un attento studio degli allineamenti astronomici e solstiziali. In particolare, Posnansky fu il primo ad osservare come i pilastri e il portale del Kalasasaya costituissero un elaborato orologio solare progettato per essere precisamente allineato alla posizione del sole ai solstizi e agli equinozi in un periodo compreso tra 17,000 e 10,450 anni prima di Cristo [9]. I calcoli precessionali sviluppati da Posnansky e Rolf Muller presso l’osservatorio di Potsdam, seppure successivamente corretti verso la più recente delle due date, costituiscono un’evidenza solo recentemente riconsiderata dagli archeologi boliviani. Si tratta di una data che, seppure in contrasto con i risultati di tutte le più recenti datazioni radiometriche relative a campioni prelevati sul sito, è stata tuttavia ripetutamente confermata da più recenti e accurati studi relativi al sistema degli allineamenti archeoastronomici.
Poiché è difficile immaginare un qualunque tipo di cultura urbana in un’epoca tanto remota e in un continente dal popolamento relativamente recente come quello Sud-americano, l’ipotesi più probabile è quella di un riferimento voluto ad una specifica data del passato da parte dei costruttori del grande centro cerimoniale, che si adeguarono dunque ad un progetto architettonico intrapreso forse in forme ben più modeste migliaia di anni prima.
Il significato stesso di questa data così remota resta sconosciuto, sebbene sia stata suggerita una qualche attinenza con il misterioso fregio calendariale della porta del sole. Questo sembra infatti descrivere un evento reale appartenente al passato della città , in cui un ignoto personaggio, talora identificato con Viracocha, il cui culto da Tiwanaku si diffonderà in tutta l’area andina, avrebbe ricevuto a Tiwanaku l’omaggio di 72 delegazioni straniere, simboleggiate dal motivo dell’angelo dello scettro.
Restano invece sconosciute le ragioni per cui un tale evento avrebbe dovuto essere ritenuto tanto importante da perpetuarne il ricordo per le successive generazioni, al punto da essere ossessivamente rappresentato in tutte le manifestazioni artistiche delle culture Tiwanaku e Wari, influenzando profondamente la stessa cultura Inca.
Il mistero delle origini
Altrettanto misteriosa risulta essere l’origine dei fondatori di Tiwanaku. Recenti indagini compiute su un campione di 18 scheletri rinvenuti sul sito hanno offerto un quadro assolutamente sconcertante dell’origine etnica dei Tiwanaku [10]. Sui 18 campioni analizzati, 13 risultarono possedere marcatori compatibili con quelli di gruppi etnici di tipo amerindio, mentre 5 risultarono possedere marcatori non attestati tra i gruppi etnici originari del Nuovo Mondo. Ciò potrebbe suggerire una origine diversa da quella degli attuali amerindi, o l’appartenenza ad un ceppo etnico successivamente estintosi o per qualche ragione scomparso dal continente americano. Va detto altresì a tale riguardo che nella regione del Titicaca la tribù degli Uros, attualmente estinti, era nota per via dei curiosi caratteri genetici che ne facevano una popolazione dalla pelle insolitamente pallida, presso la quale non erano infrequenti caratteri come occhi o capelli chiari, caratteristiche che tuttora si riscontrano presso gli indios Chachapoya del Nord del Perù.
Pure sorprendenti appaiono i risultati relativi ai campioni di tipo amerindio, in cui il gruppo più numeroso sembra essere stato costituito da popolazioni di provenienza amazzonica, subito seguite da popolazioni Aymara indigene dell’altopiano. Se l’individuazione di caratteri Aymara, tuttora il gruppo etnico dominante nella regione del Titicaca, non desta sorprese, le stesso non si può dire della preminenza di caratteri etnici di tipo amazzonico.
Il quadro che ne emerge è quello di una società fortemente cosmopolita, caratterizzata da una commistione di razze e gruppi etnici diversi, in cui la componente di gran lunga più numerosa sembra essere stata costituita da individui di ceppo amazzonico. Ciò getta altresì una nuova luce sui rapporti fino ad ora poco esplorati tra le civiltà delle Ande e l’area amazzonica, dove sembra possibile individuare l’origine etnica di una parte delle attuali popolazioni andine.
Tale quadro sembra altresì offrire una possibile soluzione al mistero delle origini dell’architettura monumentale Tiwanaku, apparentemente priva di legami con le vicine culture Wari, Chiripa e Wankarani che, pure presentando caratteri simili a quelli che caratterizzeranno il successivo sviluppo della cultura Tiwanaku, non conobbero tuttavia mai l’architettura monumentale in pietra, le cui radici potrebbero dunque radicarsi in qualche punto sconosciuto dell’area amazzonica.
Note nel testo
[1] Cieza de Leon, Pedro; Cronica del Peru, 1549 in W. Westphal, “Gli Inca”, Bertelsmann, 1985
[2] Escalante Moscoso, Javier F. ; Arquitectura prehispanica en los Andes bolivianos, Cima Ed., La Paz, 1997
[3] Cobo, Barnabé (1599 è 1657); Historia del Nuevo Mundo.
[4] Bellamy, H.S. “The calendars of Tiahuanacu”, Faber & Faber, London, 1956
[5] Si veda a riguardo l’intervista rilasciata da Alexei Vranich al sito www.archaeology.org
” Just about every guide to the site places a compass on the Akapana pyramid stone to show its magnetic properties. I’ve never paid much attention to this since the compass effect is a natural property of the stone. However, Tiwanaku is full of alignments–solar and lunar towards natural features on the landscape–I would be interested in investigating”
Trovo personalmente le conclusioni di Vranich riguardo all’origine del campo magnetico dell’Akapana alquanto lacunose: qualora si trattasse, come sostiene di una proprietà naturale della pietra, perchè il fenomeno si verifica esclusivamente sulla sommità della piramide e non altrove? E inoltre, è sufficiente il debole paleomagnetismo delle rocce a spiegare un campo magnetico tanto forte da fare deviare le bussole rispetto al vero Nord?
[6] Reconfiguring sacred space: The Inkas and the Pumapunku pyramid at Tiwanaku, Bolivia, in Revista de Antropologia Chilena, vol 36, n. 2 , jul 2004, pp 337- 350
[7] Kolata, Alan, The Tiwanaku, Blackwell, Oxford, 1993
[8] Squier, Ephraim G. , Peru, 1877
[9] Posnansky, Arthur, Tihuanacu, the cradle of American man, J.J. Augustin, New York, 1945
[10] mtDNA analysis of skeletal remains from the archaeological site of Tiwanaku and its relation to the origins of its builders, in Revista de Antropologia Chilena, vol. 35, n. 2, jul 2003 pp 269-274.