Durante questo 2013 e in un prossimo futuro saranno prese importanti decisioni in merito ai monumenti delle nostra città gravemente danneggiati dal disastroso sisma del maggio scorso.
In occasione di questa pubblicazione sul Centenario Pichiano vorrei richiamare l’attenzione sulle scelte che saranno adottate per il restauro ed il recupero dei nostri monumenti. È infatti una consuetudine dei nostri tempi presentare proposte e contenuti che spesso assecondano la moda e lo stile contemporaneo con strutture moderne, oltre a materiali e pavimentazioni lontane dal contesto urbano e indifferenti ad ogni tradizione stilistica locale.
Così in questi momenti di intensa attività progettuale ritorna alla memoria quanto avvenne proprio a Mirandola verso la fine dell’Ottocento, quando gli amministratori dell’epoca, con le migliori intenzioni, si prodigarono per distruggere le mura e altri monumenti della città in nome di un risanamento e di un rinnovamento che oggi ricordiamo solo per i danni irreparabili e definitivi.
A questo proposito dunque, ancor prima di valutare qualsiasi progetto, vi invito a leggere con attenzione le pagine di Mauro Calzolari scritte a proposito della “Demolizione delle Mura e della Torre di Piazza” attraverso la testimonianza di Don Felice Ceretti, celebre autore delle Memorie Storiche Mirandolesi (Don Felice Ceretti, Storico di Mirandola e dei Pico – Atti della Giornata di Studio 1998, pagg. 213 – 245).
Si tratta di un testo fondamentale non solo per l’analisi dei documenti descritti, ma anche per alcune considerazioni che il Ceretti, ormai rassegnato, rivolge idealmente a noi che saremo chiamati a prendere decisioni o ad esprimere anche solo un parere sul futuro della nostra città.
Gli amministratori mirandolesi di quel tempo non erano migliori o peggiori di altri; agirono conformi alla cultura dominante dell’epoca.
Ormai conosciamo la storia politica e urbanistica di tutte le nostre città e possiamo verificare che le motivazioni che portarono a tante distruzioni furono analoghe e coincisero tra loro perché più di ogni retorica sul “lavoro ai poveri” o altre contingenze tanto evocate in quel tempo e più volte ribadite dai loro successori, quelle decisioni, incuranti di ogni richiamo, erano animate dalla cultura del “modernismo”.
Come noto le demolizioni delle mura avvennero ovunque: Imola, Bologna, Modena, Carpi, Reggio Emilia, Parma, ecc. Dopo l’Unità d’Italia le nostre città erano (da loro) ritenute brutte, malsane ed obsolete rispetto alle esigenze di una nuova urbanistica che – dobbiamo ricordare, anche se non è scritto sui verbali consigliari – era prevalentemente ispirata dal tentativo di imitare le grandi città del nord-Europa, in quel tempo famose e rinomate per i lunghi viali e i larghi spazi aperti.
Quegli amministratori ritenevano le loro idee di progresso intralciate dalle quelle mura medievali e altri apparati dei nostri antichi centri storici e per questo vedevano le nostre città “soffocate” ed escluse da quei formidabili cambiamenti derivati anche dalle grandi scoperte tecnologiche di quella fine secolo.
In parte era vero, ma in realtà sappiamo che su quelle basi culturali poste in nome di un convinto utilitarismo economico e sociale, il loro disprezzo per i nostri monumenti fu totale.
In quegli anni fuori dalle aule consigliari perdurarono le critiche più aspre da parte di chi si opponeva, di chi chiedeva un ripensamento a quei progetti, ma la maggioranza vinse. Vale la pena ricordare le “esemplari” parole dell’Assessore all’Urbanistica di Mirandola, ing. Giovanni Tabacchi, ex garibaldino e poi Deputato al Parlamento che, con la demolizione delle mura già iniziate, rispose alla relazione che il Ceretti (membro della Deputazione di Storia Patria Mirandolese) aveva inviato per tentare di dissuadere l’amministrazione comunale dal demolire anche la Torre di Piazza (ultimo resto delle fortificazioni del castello):- … “Naturale e lodevole il parere della Commissione di Storia Patria, ma la Giunta ha doveri assai più complessi, e non può guardare la questione da un lato solo come una Commissione speciale”… e prosegue, … “Noi forse abbatteremo la Torre, sebbene non iconoclasti; anzi ci sentiamo stringere il cuore da tanta distruzione compiuta con tanta indifferenza”…
Come detto, le decisioni dei nostri amministratori mirandolesi non rappresentavano casi isolati.
Firenze fu tra la prime città ad intraprendere un nuovo piano regolatore.
Per il progetto della circonvallazione della nuova capitale d’Italia, nel 1865 il celebre architetto Giuseppe Poggi, l’autore di Piazzale Michelangelo, decise, ispirandosi (come ebbe a dire) ai Boulevard di Parigi, la demolizione di quasi tutto il tracciato delle mura trecentesche: erano lunghe nove chilometri e intercalate da 73 torri, 15 forti e 4 porte oggi rimaste isolate all’interno di uno spartitraffico.
Ai loro occhi, Firenze era una città “provinciale” e doveva essere ammodernata.
Più vicino a noi, a Parma, pochi anni dopo l’esempio fiorentino, il Sindaco Giovanni Mariotti, erudito
avvocato e archeologo, amico e collega di Luigi Pigorini, Direttore del Museo Archeologico, Professore Onorario dell’Università, Deputato, poi Senatore nelle file della Associazione Progressista, dichiarava di sentire “l’alito dei nuovi tempi” e per pianificare la nuova città, in due diversi mandati, riuscì a far demolire le mura dei Farnese.
I danni per gli sventramenti di interi quartieri medievali furono enormi. Dopo quegli eventi Mariotti venne chiamato “Giovanni il Guastatore”.
Consapevoli di questa eredità, tutti noi possiamo solo ricordare luoghi e monumenti che non esistono più, ma a differenza di allora conosciamo l’esito di azioni dettate dall’opportunismo e da una cultura unilaterale e senza memoria.
Evidentemente però tutto questo non è bastato perché in nome della modernità, oggi come allora – bisogna ribadirlo – molti progettisti o amministratori creativi, per giustificare i loro interventi all’interno dei nostri Centri Storici usano termini persuasivi come “riqualificazione” o “urbanistica partecipata” che a ben vedere, un po’ ovunque si sono poi tradotti in ostinati e forzati interventi architettonici e di arredo urbano che a distanza di pochi anni hanno dimostrano tutta la loro inconsistenza.
Meno noti, solo perché meno appariscenti, sono gli esempi dei restauri “tradizionali” in quei centri dove è stata favorita la residenza dei cittadini, allontanando il traffico, uffici e altre infrastrutture in aree periferiche più adeguate.
Queste semplici regole di “conservazione” e di “ripristino” sono state adottate per il Teatro la Fenice di Venezia, il Duomo di Venzone, il ponte di Castelvecchio a Verona e quello di Mostar, ma anche nelle città del nord Europa devastate dai bombardamenti dell’ultima guerra.
Quelle ricostruzioni, anche se in stile e giudicate spregevoli e costose – da chi si opponeva – trovano ancor oggi una giustificazione innegabile di continuità storica e identità collettiva.
Emblematico è l’esempio di Dresda, dove i cittadini con volontà ed il contributo di tutti, dopo ben sessant’anni sono riusciti a ricostruire la Frauenkirche (la chiesa dedicata alla Madre di Dio) distrutta dalle bombe nel 1945; questo eccezionale monumento di architettura barocca simbolo della città, reso famoso anche nei quadri di Bernardo Bellotto, è stato riaperto al culto nel 2006 in occasione dell’ottavo centenario di fondazione della città.
Sono temi drammaticamente attuali da noi come in Abruzzo; sappiamo che per i restauri le norme legislative sono complesse e, come non bastasse, a queste si affiancano le attuali difficoltà di una situazione economica incerta e precaria che pare indebolire ogni alternativa a favore di ricostruzioni ispirate da teorie astratte.
A mio parere abbiamo a disposizione le conoscenze tecniche e nuovi materiali per ricostruire le chiese di Mirandola, i campanili di campagna, i palazzi della Concordia e i castelli dei nostri centri della Bassa.
Cos’altro ci rimane?
Nel 2087 ricorrerà l’ottavo centenario della costruzione della chiesa di San Francesco e nel 2040 il Duomo di Mirandola compirà seicento anni (la sua costruzione ne richiese trenta).
Per quelle date avremo tutto il tempo necessario per progettare un piano e salvare, per quanto possibile, il nostro Patrimonio da questi momenti difficili che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
Quello che è accaduto nel maggio 2012 è stato un disastro di portata epocale e nostro malgrado non potrà essere dimenticato.
Detto questo, l’aspetto che avrà la Mirandola in futuro dipenderà da Noi.
Il testo è tratto su gentile concessione dell’autore dal volume “La Pieve di Quarantoli, la Chiesa di San Francesco e la Città della Fenice negli scritti di Giovanni Cavicchioli” di Umberto Casari e Loreno Confortini. Mirandola 2013.
Il testo integrale del volume sarà presto reso disponibile su AI Storia.
Agli autori la mia gratitudine.
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Mirandola, veduta della città come si trovava nei primi anni del XVIII secolo
(Loreno Confortini – 1992)